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Ero in Inghilterra con la scuola, a Canterbury, nel lontano 1997; ci aveva portati con tanto impegno e pazienta l’insegnante di inglese (che mi piacerebbe tanto ritrovare per salutarla). Avevo 16 anni, ma ricordo ancora chiaramente la domanda che pose il professore madrelingua: “live to work or work to live?”. Ovviamente cercava di stuzzicare il nostro interesse a rispondere e allo stesso tempo offrirci la possibilità di imparare la funzione del “to”.
La traduzione è “vivere per lavorare o lavorare per vivere?”
La pongo a voi… cosa rispondereste?
Se volete potete scrivere un commento.
In quell’occasione, una volta compreso il significato, tutti abbiamo risposto “work to live”, eravamo concordi sul fatto che il lavoro fosse una parte necessaria per vivere.
Avevo 16 anni, ma già sapevo che non mi sarei arresa nel cercare un lavoro in cui potessi sentirmi arricchita. Ad oggi sono felice che il mio cuore si sia fatto sentire con forza, che alcune malattie mi abbiano costretta lungo un cammino piuttosto che un altro, che alcune porte chiuse, comportando estrema sofferenza, mi abbiano obbligata a trovare altre uscite. Tutta la fatica, la frustrazione, la sofferenza le si capiscono, forse, molti anni dopo.
L’obiettivo del post di questa settimana è quello di sentire dove porta la propria essenza e inizio col cambiare un po’ la domanda precedente “un corpo per vivere o per lavorare?”
Parliamo del corpo per lavorare.
Il termine “lavorare” lo uso in questa sede in modo vilirà mente generico. Lavorare come parola dal significato legato alla schiavitù: noi possiamo renderci schiavi a più cose.
Cosa accade quando trattiamo il corpo come un mezzo?
Ci sono persone che arrivano nel mio studio dopo molti anni di dolore chiedendomi che gli venga tolto; vedo in loro la necessità di non ascoltarsi, perché per loro è troppo. In questi casi il corpo viene vissuto come uno strumento che porta dolore, sofferenza, uno strumento da tacere e/o ignorare. Il corpo diventa un peso, un qualcosa che non si vuole. Un oggetto che ricorda “le cose che non vanno bene” nella propria vita. Allo stesso tempo il corpo è un mezzo necessario per lavorare: guadagnare soldi per pagare le bollette, preparare i pasti per la famiglia, sistemare il giardino “perché va fatto!”. Le ferie vedo che vengono donate alla mente, più che al corpo: il bisogno di rilassarsi sembra quasi un distaccarsi completamente dalla vita di tutti i giorni. Il corpo viene “tenuto in vita” da farmaci che lo rincoglioniscono il giusto per sopportare la vita quotidiana. Il cibo è un modo per cercare piacere quindi si privilegiano gli zuccheri, i farinacei (il biscotto serale è il campanello di allarme che siamo fagocitati da un’esistenza che non ci sta arricchendo, ma impoverendo). Se si fa sport di solito si cerca quello estremo, “ci si sveglia” a 30 o 40 anni che si vuole fare la maratona o il triathlon, crossfit, 5 allenamenti a settimana… il corpo diventa sede di un disagio che non accettiamo e cerchiamo di cambiarlo con attività estreme, anziché in funzione di un cambiamento salutare.
Parliamo del corpo per VIVERE.
Sempre più persone arrivano nel mio studio perché sentono la necessità di un cambiamento, consapevoli che il dolore che hanno è un messaggio.
Permettetemi di riportare le parole di Jodorwsky: Uscire dalle nostre difficoltà implica modificare profondamente la relazione con noi stessi e con tutto il nostro passato.
Date queste premesse, chi sarà veramente disposto a cambiare?
La gente desidera smettere di soffrire, ma non è disposta a pagarne il prezzo, a cambiare, a cessare di definirsi in funzione delle sue adorate sofferenze.
In veste di consigliere, più rifiuto di scendere a compromessi, più gli altri ne beneficiano. Spetta a loro decidere se accettare o meno le mie condizioni.
Il “corpo per vivere” è un elemento che contribuisce alla composizione del nostro essere, necessario per vivere appieno l’unione tra spirito e materia. È un tempio sacro che richiede rispetto, è un essere vivente di cui prendersi cura, proteggere e nutrire. Un corpo che ringraziamo perché attraverso di esso percepiamo profumi, pericoli, vediamo paesaggi e gli occhi di chi ci stima, ascoltiamo il canto del vento e urla, sentiamo fuoco che brucia e labbra che baciano… insomma tutto ciò che ci fa sentire vivi.
Se avete visto il cartone animato “SOUL” vi ricorderete la scena in cui il mentore cerca di convincere l’anima 22 che vivere è bello facendole mangiare una pizza, ma gli fa notare che non è possibile capirlo perché al momento non ha un corpo che gli permetta di sentirne il sapore.
Se ci ricordassimo quanto è speciale il nostro corpo non lo useremmo solo per “pagare bollette”, ma gli daremmo il giusto rispetto e le opportunità perché possa esprimere le sue potenzialità.
Foto di mjnii000_scythian
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Dottoressa Nicoletta De Col
Osteopata e MCB
Laurea triennale e specialistica in psicologia sociale
Laurea in scienze motorie
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